Tripla Transizione: verso un nuovo paradigma socio-economico
La “tripla transizione” viene narrata come il passaggio verso un modello socio-economico, fondato su tre pilastri interconnessi: la sostenibilità ambientale (green), la trasformazione digitale (digital) e l’inclusione sociale (inclusion).
Per la transizione green si usano termini come “Green economy” sottintendendo un paradigma economico basato sulla sostenibilità ambientale, l’ “Economia Circolare”, come paradigma di produzione basato su cicli chiusi di materia, viene anche introdotto il concetto di “economia della conoscenza” come paradigma economico indotto dalla tecnologia digitale.
Infine, ob torto collo, per rispondere alle crescenti disuguaglianze sociali emerse dall’applicazione non equilibrata di queste ricette, si è introdotto il tema della “Just Transition”, intesa come una transizione sociale inclusiva e giusta.
La narrativa, attraverso un’innocente operazione semantica, realizza una eterogenesi dei fini, trasformando uno scopo in uno strumento d’azione non meglio definito.
L’aggettivazione del termine “Economia” in espressioni come “economia circolare”, “green economy” o “economia della conoscenza” è generalmente associata all’idea di un paradigma economico. Un vero paradigma economico, tuttavia, richiede il supporto di una solida sovrastruttura culturale in grado di giustificarlo e sostenerlo come fondamento di una visione sistemica. Inoltre, un paradigma economico autentico deve essere sufficientemente strutturato da guidare una transizione storica dell’intero sistema socio-economico. Sorge quindi il dubbio se tali termini rappresentino effettivamente paradigmi economici fondativi e trasformativi della società, o se si limitino a essere semplici policy operative condivise tra gli attori, prive di una base culturale e strutturale adeguata a determinare un cambiamento profondo e duraturo.
Alternativamente, si potrebbe argomentare che tali concetti rappresentino non veri e propri paradigmi economici autonomi, ma piuttosto visioni parziali o frammentarie di un paradigma economico sottostante. Questo solleva un’interessante domanda: quale sarebbe l’effettivo paradigma economico che queste narrative sottendono? Si tratta forse di un modello economico emergente, capace di integrare le dimensioni della sostenibilità ambientale, dell’innovazione tecnologica e della giustizia sociale, o siamo di fronte a una molteplicità di approcci settoriali privi di una visione unitaria e coerente?
In alternativa, è possibile che tali narrazioni siano strumenti retorici utilizzati per occultare, all’interno di un quadro di obiettivi apparentemente condivisibili e condivisi, il mantenimento del paradigma economico esistente. Operazioni di greenwashing, social washing e l’uso strategico del controllo digitale potrebbero infatti servire a preservare le strutture consolidate di potere e profitto, mascherandole dietro il linguaggio del cambiamento e della sostenibilità. Questa possibilità pone un’ulteriore sfida critica: distinguere tra innovazione autentica e narrazione funzionale al perpetuarsi dello status quo.
Gli obiettivi appaiono condivisibili e condivisi:
Green (Sostenibilità e Circolarità): Promuovere uno sviluppo economico sostenibile che riduca l’impatto ambientale, garantisca il soddisfacimento dei bisogni presenti e futuri, e incoraggi la transizione verso un’economia circolare basata sul riciclo e sulla riduzione degli sprechi.
Trasformazione Digitale: Accelerare l’innovazione tecnologica per migliorare l’efficienza, creare nuove opportunità economiche.
Inclusione Sociale: Assicurare che la transizione verso nuovi modelli economici sia equa e giusta, riducendo le disuguaglianze, garantendo pari opportunità e includendo le fasce più vulnerabili della popolazione.
La tripla transizione emerge pertanto come conseguenza di una domanda ambientale, di un cambiamento di tecnologia dominante e con i cambiamenti sociali che ne derivano. L’obiettivo ultimo è pertanto quello di individuare un paradigma economico che sia in grado di integrare le 3 dimensioni della transizione, ed essere inclusivo anche rispetto al sistema produttivo ed industriale che costituisce l’infrastruttura materiale su cui si regge la società.
È evidente che il convitato di pietra del ragionamento che appare escluso dalla narrativa pubblica è il Capitalismo e le forme con cui si è sviluppato nel corso del ‘900!
La tripla transizione si configura come una risposta alle pressanti esigenze ambientali, all’evoluzione di tecnologie dominanti e ai cambiamenti sociali che ne derivano. L’obiettivo finale è quello di definire un nuovo paradigma economico che integri le tre dimensioni della transizione – ecologica, digitale e sociale – in un sistema coerente e sostenibile, e che sia inclusivo anche nei confronti del sistema produttivo e industriale, che costituisce l’infrastruttura materiale su cui si fonda la società.
Tuttavia, è evidente che il “convitato di pietra” in questa riflessione, e sorprendentemente assente nella narrativa pubblica, è il Capitalismo e le sue modalità di sviluppo, specialmente quelle consolidate nel corso del XX secolo. Questo silenzio solleva interrogativi fondamentali: è davvero possibile costruire un paradigma economico capace di rispondere alle sfide della tripla transizione senza confrontarsi con le radici del sistema economico attuale?
È altrettanto evidente che il sistema capitalistico stia cercando di auto-rigenerarsi per affrontare la strada obbligata imposta dalla tripla transizione. Si può ipotizzare che, se la transizione richiesta si limita a trasformare le modalità operative del sistema – come i processi produttivi interni o le relazioni con l’esterno – allora questa rigenerazione potrebbe effettivamente avvenire, adattandosi alle nuove esigenze senza alterare la sua essenza.
Tuttavia, se la transizione tocca ciò che il sistema è ontologicamente, ovvero la sua struttura fondamentale e le sue “risorse simboliche” (come i valori, le ideologie e i presupposti culturali su cui si fonda), allora una auto-rigenerazione diventa impossibile. In questo caso, il sistema non potrebbe sopravvivere al cambiamento senza distruggere sé stesso, poiché sarebbe costretto a rinunciare alle basi su cui è storicamente cresciuto e consolidato. Questo scenario pone quindi una sfida cruciale per la sostenibilità e l’evoluzione del capitalismo stesso.
Paradigmi Economici del ‘900
La economia politica classica, che costituisce le basi teoriche del capitalismo, si fonda su alcuni presupposti fondamentali:
- Risorse ambientali infinite: il sistema assume implicitamente che le risorse naturali siano illimitate o facilmente sostituibili, ignorando i limiti ecologici e l’impatto ambientale.
- Lavoro disponibile e inesauribile: il lavoro umano è visto come un fattore di produzione sempre accessibile, spesso senza considerare le sue implicazioni sociali e psicologiche.
- Esternalità ambientali: i costi ambientali (inquinamento, degrado delle risorse naturali) sono esclusi dal calcolo economico, trasferiti al di fuori del sistema come “effetti collaterali”.
In contrapposizione al capitalismo, il socialismo ha promosso un modello basato su un principio di eguaglianza, dove l’economia è centralizzata e regolata da un unico ente ordinatore – lo Stato. Questo modello mira alla redistribuzione equa delle risorse e all’eliminazione delle disparità economiche. Tuttavia, la pianificazione centralizzata si è spesso scontrata con la complessità sociale: la diversità di bisogni, aspirazioni e contesti locali ha reso difficile un’organizzazione rigida, portando a inefficienze e perdita di flessibilità rispetto alle dinamiche reali della società.
Il keynesianesimo, sviluppato nel XX secolo, rappresenta un compromesso tra capitalismo e socialismo, proponendo un intervento attivo dello Stato per mitigare le disfunzioni del mercato. Attraverso politiche fiscali e monetarie, il keynesianesimo cerca di stabilizzare l’economia, ridurre la disoccupazione e promuovere la crescita economica, senza però mettere in discussione le basi del capitalismo. Questo modello ha avuto successo nel contesto dell’economia industriale, che si caratterizzava per una produzione di massa, mercati relativamente prevedibili e un’organizzazione del lavoro gerarchica.
Tuttavia, tutti questi paradigmi economici – il capitalismo classico, il socialismo pianificato e il keynesianesimo – si fondano su un modello di economia industriale con specifiche forme di organizzazione del lavoro.
I paradigmi economici del ‘900 sono stati concepiti per affrontare la dicotomia tra Capitale e Lavoro, che rappresenta il cuore delle dinamiche produttive, sociali e politiche dell’epoca. Questa opposizione, centrale nel pensiero economico e politico del secolo scorso, ha definito le relazioni economiche, le lotte di classe e i modelli di inclusione sociale. Il Capitale, rappresentante i mezzi di produzione e gli investimenti, è stato storicamente associato alle élite economiche e industriali, mentre il Lavoro, incarnato dalla forza lavoro, ha rappresentato la base produttiva e sociale su cui si fonda ogni economia. La tensione tra questi due poli ha guidato l’evoluzione delle istituzioni economiche e politiche, alimentando negoziazioni che definivano diritti, salari e redistribuzione della ricchezza.
Il sistema politico e sociale è stato organizzato attorno a questa dicotomia, con i sindacati e le associazioni di lavoratori da un lato, e le confederazioni industriali e finanziarie dall’altro, che rappresentavano le rispettive parti nella contrattazione sociale, cercando di mediare tra gli interessi divergenti di capitale e lavoro. La riduzione delle disuguaglianze e la garanzia di una partecipazione equa al sistema economico sono stati obiettivi perseguiti tramite politiche redistributive e di welfare, spesso ispirate dal compromesso keynesiano, che cercavano di bilanciare il potere tra capitale e lavoro, promuovendo la coesione sociale e l’integrazione economica.
Le forze politiche, i movimenti sindacali e le ideologie dominanti come il socialismo, il comunismo, la socialdemocrazia e il liberalismo, erano strutturati per rispondere e gestire questa dialettica tra capitale e lavoro, con conflitti e alleanze che hanno plasmato la politica del XX secolo. La struttura delle istituzioni moderne, dai governi nazionali alle amministrazioni locali, si è evoluta per gestire questa dicotomia, garantendo regole eque per la produzione e il lavoro, tassazione redistributiva e regolamentazioni che preservassero la stabilità sociale.
Questa dicotomia ha rappresentato sia un momento di scontro che un principio ordinatore del sistema socio-economico, ma il passaggio dalla produzione industriale alla digitalizzazione ha modificato radicalmente il rapporto tra l’essere umano e il lavoro, e tra lavoro e capitale.
Il paradigma della Economia Civile
Come sopra descritto, i termini “economia green”, “economia circolare” e “economia della conoscenza” non sembrano possedere quelle basi teoriche necessarie a costituire un paradigma economico fondativo in grado di sostenere e orientare la società nel suo complesso. Sebbene rappresentino strumenti utili e concetti rilevanti per affrontare specifiche sfide contemporanee – dalla sostenibilità ambientale alla trasformazione digitale – essi si configurano più come policy settoriali o approcci operativi che come sistemi organici capaci di integrare le diverse dimensioni economiche, sociali e culturali.
Per diventare un vero paradigma economico, ciascuno di questi concetti dovrebbe essere supportato da una visione teorica coerente, capace di ridefinire le strutture produttive, distributive e istituzionali su cui si regge la società, qualcosa che al momento appare ancora incompleto o frammentario.
Negli ultimi decenni, sono emersi vari tentativi di superare le limitazioni della Economia Politica Classica, che ha tradizionalmente sostenuto il Capitalismo, specialmente nelle sue forme consolidate del XX secolo. Questi approcci cercano di rispondere alle criticità legate alla sostenibilità ambientale, alle disuguaglianze sociali e alle trasformazioni tecnologiche che stanno rapidamente rimodellando le basi economiche e produttive. Organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale hanno avviato programmi e politiche per integrare aspetti come la sostenibilità e l’inclusione sociale, riconoscendo l’importanza di affrontare le esternalità economiche e ambientali.
Tuttavia, molti degli interventi proposti rimangono legati a una logica incrementale, mirando più a mitigare gli effetti negativi del capitalismo piuttosto che a ripensarlo in modo sistemico. In questo contesto, emerge la necessità di sviluppare un nuovo paradigma economico che superi i limiti dell’approccio tradizionale. Un tale paradigma dovrebbe innanzitutto incorporare il concetto del limite, riconoscendo i confini ecologici del pianeta e integrando la sostenibilità ambientale come un vincolo strutturale, anziché come una semplice esternalità da gestire.
In secondo luogo, dovrebbe internalizzare l’ambiente come risorsa produttiva, trattando il capitale naturale non solo come un bene da preservare, ma come un elemento centrale nei cicli produttivi e nel valore economico complessivo. Un altro aspetto fondamentale è il riconoscimento del Capitale Umano come un valore di proprietà del lavoratore, superando l’idea di una “massa operaia” omogenea e standardizzata, e valorizzando il capitale umano nella sua complessità, che include non solo le competenze e le capacità, ma anche la creatività e le aspirazioni personali.
Inoltre, è necessario integrare la transizione digitale non solo come un motore di efficienza, ma come una vera e propria trasformazione culturale e organizzativa che rimodella le relazioni tra lavoro, capitale e società, con una particolare attenzione alla giustizia sociale. Infine, il nuovo paradigma dovrebbe garantire l’inclusione sociale, spostando il focus da una logica di profitto individuale a una visione collettiva, capace di bilanciare crescita economica e benessere sociale.
All’interno di tale paradigma potrà realizzarsi un ripensamento delle forme sociali e delle strutture della governance. Se le organizzazioni produttive si trasformano in realtà che internalizzano l’ambiente e il capitale umano, i confini tradizionali tra impresa e comunità iniziano a dissolversi, orientandosi verso un modello ispirato alla visione olivettiana, in cui l’impresa è concepita non solo come motore economico, ma anche come centro di sviluppo sociale e culturale.
In questo scenario, i cancelli della fabbrica si aprono al territorio e al sociale, dando vita a un processo di contaminazione positiva tra produzione e comunità. Questo allargamento delle prospettive non solo promuove una maggiore integrazione tra attività economiche e responsabilità sociale, ma modifica anche le dinamiche della competizione.
La competizione tra imprese si sposta verso una competizione tra territori, in cui l’attrattività e la qualità del contesto locale – in termini di capitale umano, sostenibilità ambientale e coesione sociale – diventano fattori determinanti per il successo economico. Tale trasformazione potrebbe ridefinire il concetto stesso di competitività, orientandolo verso la valorizzazione del bene comune e lo sviluppo sostenibile dei territori.
Il paradigma della Economia Civile
Il concetto di Economia Civile si presenta come un paradigma adeguato a rispondere alle sfide contemporanee, emergendo come una riscoperta di principi e valori antichi, reinterpretati alla luce delle necessità attuali. Le sue radici affondano nella tradizione economica pre-classica, sviluppata da pensatori come Antonio Genovesi nel XVIII secolo, che vedevano l’economia non solo come una scienza della produzione e dello scambio, ma come un mezzo per promuovere la cooperazione, la reciprocità e il bene comune.
Questa prospettiva, oscurata per lungo tempo dall’avvento dell’economia politica classica e delle sue logiche utilitaristiche, viene oggi recuperata come un modello capace di rispondere alle contraddizioni del capitalismo tradizionale. L’Economia Civile propone un sistema in cui economia, ambiente e società non sono dimensioni separate, ma profondamente interconnesse. Essa supera le logiche estrattive e competitive del mercato moderno, offrendo una visione basata sull’inclusione sociale, sulla sostenibilità ambientale e sulla valorizzazione delle relazioni umane come risorsa economica e culturale.
In questo senso, l’Economia Civile rappresenta un ritorno consapevole a un modo di pensare e praticare l’economia che riconosce il valore intrinseco delle persone, delle comunità e dell’ambiente, integrando questi aspetti in un paradigma olistico e adeguato alle sfide del nostro tempo.
L’Economia Civile si fonda su principi distintivi che la differenziano dagli approcci economici classici e moderni. Essa propone un modello integrato, incentrato su valori come la reciprocità, il bene comune e la sostenibilità. Questo approccio mira a superare le logiche puramente estrattive e competitive, offrendo una visione dell’economia che mette al centro le persone, le relazioni e il rispetto per l’ambiente.
L’Economia Civile si distingue nettamente dall’Economia Politica per la diversa concezione delle relazioni umane e delle finalità dell’attività economica. Mentre l’Economia Politica tradizionale si fonda sull’idea dell’“homo homini lupus”, secondo cui l’essere umano agisce principalmente in modo egoistico e competitivo, l’Economia Civile si ispira al principio opposto dell’“homo homini natura amicus”, che vede nelle relazioni di reciprocità, cooperazione e bene comune i cardini dell’attività economica.
Tra i concetti fondamentali che caratterizzano l’Economia Civile si evidenziano: la produttoria, che enfatizza il valore moltiplicativo della collaborazione; il capitale relazionale, che valorizza il ruolo delle connessioni umane ed economiche; e il valore sociale della produzione, che integra gli impatti economici, sociali e ambientali.
Valore economico come produttoria
Uno degli aspetti centrali dell’Economia Civile è il concetto di produttoria, che funge da misura del valore generato dalla cooperazione tra gli attori economici. Contrariamente all’Economia Politica, che tende a valutare il valore attraverso la somma dei contributi individuali (ad esempio, la somma dei redditi o della produttività individuale), la produttoria rappresenta il valore moltiplicativo delle relazioni collaborative.
Matematicamente, la produttoria si esprime come:
In questa visione, il valore del sistema non è semplicemente la sommatoria dei contributi ma un prodotto che cattura le sinergie e il valore aggiunto delle relazioni cooperative. In un sistema ben integrato, il contributo di ciascun attore amplifica il risultato complessivo, evidenziando come la collaborazione possa generare valore maggiore rispetto alla semplice somma delle parti.
Capitale Relazionale: Il Valore delle Connessioni
Nell’Economia Civile, viene preso in considerazione il capitale relazionale è considerato una risorsa fondamentale per il funzionamento del sistema economico. Le relazioni tra gli attori economici non sono viste solo come strumenti utilitaristici, ma come generatori di fiducia, cooperazione e sostenibilità. Questo contrasta con l’Economia Politica, che tende a trattare le relazioni come meri mezzi per ottimizzare transazioni individuali.
Il capitale relazionale può essere espresso matematicamente come:
In un sistema economico che valorizza le relazioni, un maggiore capitale relazionale si traduce in maggiore efficienza, innovazione e resilienza, poiché le connessioni tra gli attori non sono solo transazionali ma orientate alla creazione di valore condiviso.
Valore Sociale della Produzione: L’Integrazione di Economia, Società e Ambiente
L’Economia Civile introduce una visione olistica del valore della produzione, considerando non solo i benefici economici diretti ma anche l’impatto sociale e ambientale. In contrapposizione all’Economia Politica, che riduce il valore a una misura quantitativa di profitto, l’Economia Civile propone una valutazione più complessa e bilanciata.
Il valore complessivo può essere espresso come:
Questa formula evidenzia come l’Economia Civile ponga l’accento su un valore equilibrato, che integra dimensioni diverse del benessere, in contrasto con l’approccio utilitaristico e profit-oriented dell’Economia Politica.
L’Economia Civile, con i suoi concetti fondamentali, propone un’alternativa sistemica all’Economia Politica. Dove quest’ultima enfatizza la competizione e il profitto individuale, l’Economia Civile valorizza la cooperazione, il capitale relazionale e il bene comune. La produttoria, come misura del valore moltiplicativo, e il capitale relazionale, come risorsa essenziale, rappresentano una profonda innovazione nella comprensione del valore economico, rendendo l’Economia Civile un paradigma in grado di affrontare le sfide del XXI secolo.